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Aiuto dei familiari, non sempre gratuito

Stabilire quando la collaborazione dei familiari in azienda è occasionale (quindi non soggetta agli obblighi di un rapporto lavorativo, a partire dai contributi) o richiede di essere formalizzata con un contratto di lavoro subordinato, può essere rilevante, soprattutto per le prestazioni rese nell’ambito di attività stagionali a più alta intensità di lavoro in determinati periodi dell’anno, come quelle legate al turismo.

Le problematiche sul lavoro prestato dai familiari dell’imprenditore in azienda nascono spesso in sede ispettiva, quando si pone l’esigenza di configurare la tipologia del lavoro prestato, con la conseguente attribuzione dei diritti-obblighi nascenti dal rapporto lavorativo riqualificato.

Per superare la presunzione, chi contesta la gratuità della prestazione resa dal familiare o affine deve fornire prova rigorosa degli elementi tipici che giustificano l’esistenza di un rapporto subordinato.

La prova rigorosa richiesta per superare la presunzione di gratuità si riferisce all’ipotesi del familiare che intenda far valere la subordinazione nei confronti del proprio congiunto, rispetto al quale ha reso determinate prestazioni lavorative in assenza di contrattualizzazione (ipotesi non infrequente). 

Se, viceversa, il congiunto ha regolarizzato il lavoro dei familiari (effettuando le necessarie comunicazioni amministrative, i versamenti fiscali e contributivi, rilasciando le busta paga e così via), l’onere di dimostrare la inesistenza del lavoro subordinato e la riqualificazione del rapporto, con conseguente iscrizione alla gestione artigiani/commercianti, spetta all’organo ispettivo.

Ma quali sono gli elementi che permettono di superare la presunzione di gratuità? La mancata convivenza sotto uno stesso tetto, ad esempio, opera a favore del rapporto lavorativo a titolo oneroso. In una situazione di convivenza more uxorio la presunzione di gratuità opera secondo criteri che devono tuttavia essere provati con maggiore rigore «richiedendosi che la stessa sia caratterizzata da una comunanza spirituale ed economica analoga a quella inerente al rapporto coniugale».

È molto rilevante anche la natura dell’impresa. Come riconosciuto dall’Inps, nelle società di capitali (ad esempio Srl) la dimostrazione di un rapporto di lavoro subordinato in presenza di legami di parentela o affinità (ad esempio la moglie o il figlio dell’amministratore unico) è più agevole. Infatti, il rapporto è instaurato con la società (nettamente distinta dalle persone dei soci, in quanto persona giuridica). Resta fermo che, in tutti i casi in cui si affermi l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ne dovranno essere dimostrati gli elementi caratterizzanti (in primo luogo l’assoggettamento al potere direttivo e organizzativo altrui e l’onerosità). La Cassazione ha richiamato, quali elementi presuntivi del rapporto di lavoro subordinato:

  • la presenza costante del familiare sul luogo di lavoro;
  • l’osservanza di un orario coincidente con l’apertura al pubblico dell’attività commerciale tale da prefigurare, piuttosto che una partecipazione all’attività dettata da motivi di assistenza familiare, il programmatico valersi da parte del titolare del lavoratore;
  • la corresponsione di un compenso a cadenze fisse, anch’essa maggiormente compatibile con la logica del corrispettivo della prestazione.

Ma quali sono le conseguenze di un eventuale disconoscimento del rapporto? Prescindendo dalle possibili problematiche di natura civilistica e societaria, in genere il disconoscimento del rapporto di lavoro subordinato comporta l’annullamento della relativa posizione contributiva con la restituzione dei contributi versati, più gli interessi maturati al netto degli eventuali assegni familiari percepiti. Eventuali trattamenti pensionistici in corso saranno annullati, con recupero delle prestazioni già erogate. La riqualificazione del rapporto comporterà il recupero della relativa contribuzione. L’impresa o la società, a loro volta, non potranno dedurre gli stipendi corrisposti al familiare-dipendente.

La presunzione di gratuità del lavoro familiare opera in presenza di convivenza «sotto lo stesso tetto» del lavoratore familiare con l’imprenditore titolare mentre «non opera quando i soggetti sono conviventi in unità abitative autonome e distinte». Nella convivenza more uxorio la presunzione di gratuità opera secondo criteri da provare con maggiore rigore, richiedendosi che la stessa sia caratterizzata da una comunanza spirituale ed economica analoga a quella del rapporto coniugale. Se manca la convivenza, la gratuità del rapporto si può desumere dall’esistenza di una finalità ideale, alternativa rispetto a quella normalmente lucrativa che caratterizza il rapporto di lavoro, da provare rigorosamente (la relativa valutazione è compiuta dal giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se immune da errori di diritto e da vizi logici). La promessa di un lascito ereditario non mantenuta esclude la gratuità della prestazione. Ugualmente, l’inerzia nel richiedere un compenso non giustifica di per sé la gratuità del rapporto. 

Si presume quando il lavoro è prestato per non più di 90 giorni o 720 ore all’anno (riparametrabili nel caso di attività stagionali). Il lavoro prestato dal familiare pensionato o impiegato full-time presso un altro datore si considera lavoro gratuito occasionale, fatta salva la facoltà di ulteriori accertamenti da parte degli organi ispettivi.

Per giustificare l’esistenza di un rapporto subordinato, devono in ogni caso sussistere:

  • la presenza costante del familiare sul luogo di lavoro; 
  • l’osservanza di un orario coincidente con l’apertura al pubblico dell’attività; 
  • un utilizzo programmatico (non saltuario) dell’opera del familiare-lavoratore da parte del titolare; 
  • la corresponsione di un compenso a cadenze fisse (Cassazione 4535/2018). 

Rilevano le modalità e le caratteristiche del sistema di pagamento degli emolumenti, in modo da verificare se:

  • corrispondono a quelle osservate per il restante personale dipendente; 
  • il relativo regime fiscale corrisponde a quello applicato per la generalità dei lavoratori subordinati 

Nelle società di capitali (ad esempio le Srl) la prova della sussistenza di un rapporto subordinato è più semplice. In questi casi è tuttavia consigliabile verificare se il familiare del socio o dell’amministratore (come spesso accade) possiede una quota rilevante del capitale sociale, in grado di influire in modo decisivo sulla formazione delle delibere assembleari. In caso affermativo, il familiare sarebbe equiparato a un socio dominante, in quanto tale incompatibile con la situazione di soggezione del lavoratore subordinato al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro (in sostanza il socio sarebbe dipendente di sé stesso)

I familiari del titolare che lavorano nelle aziende del commercio (il coniuge, i figli legittimi o legittimati, i nipoti in linea diretta, gli ascendenti, i fratelli e le sorelle e i parenti e affini entro il terzo grado) devono iscriversi nella gestione Inps commercianti/artigiani come coadiutori.

Come ha precisato la giurisprudenza di legittimità l’obbligo di iscrizione per il familiare coadiutore sussiste quando la sua prestazione lavorativa è abituale, perché svolta con continuità e stabilmente. Il che significa che la prestazione non deve essere straordinaria o eccezionale (ancorché non sia necessaria la presenza quotidiana e ininterrotta sul luogo di lavoro, essendo sufficiente escluderne l’occasionalità, la transitorietà o la saltuarietà). Deve, inoltre, essere una attività prevalente, perché resa, sotto il profilo temporale, per un tempo maggiore rispetto ad altre occupazioni del lavoratore. Non è importante la prevalenza del suo apporto rispetto agli altri occupati nell’azienda, siano essi lavoratori autonomi o dipendenti.

Tuttavia, non sempre è facile riconoscere una prestazione abituale e prevalente (soggetta agli obblighi previdenziali) da una prestazione occasionale (non soggetta). Si può escludere dall’obbligo di iscrivibilità il pensionato familiare del titolare/socio dell’impresa. Questi soggetti, infatti, non sono in grado di garantire un apporto lavorativo continuo (per le ragioni più diverse: scarsa volontà di impegnarsi in una attività nuova, maggiore attenzione al contesto familiare, contribuzione non finalizzata alla costruzione di una rendita pensionistica).

Non è iscrivibile, per ragioni ovvie, il familiare già impiegato full time presso un altro datore di lavoro. Ma negli altri casi? Sono occasionali le collaborazioni familiari prestate per non più di 90 giorni o 720 ore nell’anno. Nel caso di superamento dei 90 giorni, il limite si considera rispettato anche se l’attività resa dal familiare si svolge solo per qualche ora al giorno, fermo restando il tetto massimo delle 720 ore annue. Ai settori originariamente interessati (commercio, artigianato, agricoltura) si è poi aggiunto il settore turismo (ma ormai si ritiene il criterio di natura generale). In quest’ultimo caso, anzi, l’attività occasionale è assai diffusa, dal momento che la prestazione del familiare spesso viene resa con carattere di stagionalità, per alcuni limitati periodi dell’anno. In questi casi l’indice dei 90 giorni nell’anno può essere riparametrato in funzione della durata effettiva dell’attività stagionale (ad esempio per una durata stagionale di 120 giorni, 120:365×90, il limite è di 30 giorni). In tutti i casi, sussiste una generica presunzione di gratuità della prestazione resa dal familiare: l’organo ispettivo potrà sempre, se lo ritiene, fare ulteriori accertamenti. Dovrà però motivare puntualmente nei verbali ispettivi le ragioni che lo hanno indotto a una diversa ricostruzione del rapporto in termini di prestazione lavorativa abituale-prevalente.


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