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Attenti al post, può costare il lavoro

A volte può bastare un post – o anche un tweet – per essere licenziati; ma altre volte, invece, i dipendenti troppo “disinvolti” nel citare sui social network il datore di lavoro o i colleghi vengono “salvati” dai giudici.
Negli ultimi anni sempre più spesso l’utilizzo dei social network sui luoghi di lavoro è entrato nelle aule dei tribunali, con risultati non sempre scontati né uniformi.
Così, per il Tribunale di Busto Arsizio sono sufficienti i pochi caratteri dei tweet per ledere l’immagine del datore di lavoro e «rendere esplicito un atteggiamento di disprezzo verso l’azienda e i suoi amministratori».
Sotto la lente dei giudici finiscono gli obblighi di diligenza e fedeltà prescritti dagli articoli 2104 e 2105 del Codice civile e reinterpretati alla luce dell’attività social del lavoratore.
I toni del dipendente devono essere sempre quelli di una comunicazione non offensiva né ingiuriosa che resti nei limiti di un dialogo costruttivo.
Nel frattempo, i contratti collettivi e le policy aziendali si stanno evolvendo, prevedendo sanzioni disciplinari per le violazioni più ricorrenti commesse dai dipendenti che navigano sui social.
Il ritardo nell’addebito pesa poi sull’azienda che non potrà irrogare sanzioni se le contestazioni sono generiche.
Tuttavia, non c’è scampo per il dipendente che si affretta a rimuovere le tracce delle proprie navigazioni in rete durante un’ispezione dell’azienda: può essere licenziato perché il datore può effettuare verifiche sui propri computer; non si tratta di controlli a distanza ma di una verifica lecita sugli strumenti di lavoro che non deve essere ostacolata dal dipendente.

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