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Il lavoro a chiamata, la guida completa

«Ti chiamo quando mi servi, ti pago quando ti chiamo»: questo semplice concetto illustra la sostanza del contratto a chiamata, ossia quel particolare rapporto, a termine o a tempo indeterminato, disciplinato negli articoli da 13 a 18 del Dlgs 81/2015, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro, che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente, secondo le proprie esigenze. Una formula contrattuale sempre più gettonata dalle imprese che la utilizzano per assumere lavoratori da dedicare ad attività sporadiche e temporanee. 

La disciplina del contratto di lavoro intermittente (o a chiamata, il cosiddetto job on callnon ha subito cambiamenti rispetto a quanto previsto dal Jobs act nel 2015 (articolo 13 del Dlgs 81/2015). 

L’assunzione può avvenire sia a tempo indeterminato, sia a termine, con la possibilità di chiamare e retribuire il lavoratore solo per i giorni e negli orari in cui è necessaria la sua prestazione.


Ci sono una serie di paletti:

  • In primo luogo, l’età. I contratti di lavoro a chiamata, senza limitazioni sull’attività di impiego, possono infatti essere stipulati con due categorie di soggetti: giovani di età inferiore a 24 anni, purché la prestazione si esaurisca entro il venticinquesimo anno di età (quindi, stipulando solo rapporti di lavoro a termine); soggetti di età superiore a cinquantacinque anni, anche pensionati. In base a questi criteri, dunque, “licenziare” un giovane assunto a chiamata al compimento dei 25 anni non è discriminazione del lavoratore. Non si applica nessun limite di età, invece, nel caso di attività lavorative di carattere discontinuo o intermittente individuate dai contratti collettivi oppure comprese tra le attività elencate nella tabella approvata con il regio decreto 2657/1923. 
  • Un altro paletto riguarda la durata dell’attività di lavoro svolta, che non può superare le 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari. Il datore deve inoltre ricordarsi di comunicare l’inizio di ogni prestazione all’ispettorato del Lavoro.

Nessun limite d’impiego per alberghi, bar e ristoranti


I divieti 


Il ricorso al lavoro intermittente (ex articolo 14) è vietato:

  • per sostituire lavoratori in sciopero;
  • presso unità produttive (e, quindi, non nell’intera azienda) in cui si è proceduto, nei sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi a norma degli articoli 4 e 24 della legge 223/1991, che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce tale contratto;
  • presso unità produttive nelle quali sono in corso una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario per cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto intermittente;
  • ai datori che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione delle norme di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori: per l’Ispettorato nazionale del lavoro, la violazione di questa norma comporta la trasformazione del rapporto in un subordinato a tempo indeterminato che, normalmente, in base al principio di effettività delle prestazioni, potrà essere a tempo parziale.


Le ipotesi ammesse 


Il lavoro a chiamata è una tipologia contrattuale assai flessibile, che può essere utilizzata in tre distinte ipotesi, alternative tra loro: 

  • per esigenze individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nella settimana, mese o anno; 
  • in mancanza di contratto collettivo, i casi di ricorso al lavoro intermittente sono individuati con decreto del ministro del Lavoro: poiché tale decreto non è ancora stato emanato, opera il Dm 23 ottobre 2004, per il quale «è ammessa la stipulazione di contratti di lavoro intermittente con riferimento alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657»: tale decreto è da considerarsi ancora vigente e, quindi, è possibile rifarsi alle ipotesi indicate per attivare le prestazioni in esame (nota 10/2016 del ministero del Lavoro);
  • il contratto intermittente può essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il 25° anno, e con più di 55 anni.

I limiti 


A differenza dell’apprendistato e del contratto a termine vero e proprio, rispetto ai quali sono previsti precisi limiti in merito al numero di dipendenti che è possibile assumere, in questo caso il limite, con alcune eccezioni, riguarda la «quantità di lavoro» che può essere resa dal singolo prestatore e non il numero totale o percentuale dei lavoratori medesimi.


In ogni caso, con l’eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari

In caso di superamento di tale periodo il relativo rapporto si trasforma a tempo pieno e indeterminato.


Come chiarito dal ministero con la nota 26/2014, i datori del turismo, pubblici esercizi e spettacolo, ai quali il limite delle 400 giornate non si applica, sono quelli: iscritti alla Cciaa con il codice attività Ateco 2007 corrispondente a tali settori produttivi o che, pur non rientrando nei citati codici Ateco, svolgano attività proprie del settore turismo, pubblici esercizi e spettacolo con relativi Ccnl.


La forma 


Il contratto va stipulato per iscritto, indicando: la durata e le ipotesi, oggettive o soggettive, che lo consentono; il luogo e le modalità dell’eventuale disponibilità e del preavviso di chiamata (minimo: un giorno lavorativo); il trattamento economico e normativo e la relativa indennità di disponibilità, se prevista; le forme e modalità con cui il datore può richiedere la prestazione; i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e dell’indennità di disponibilità; le misure di sicurezza in relazione al tipo di attività.


Il trattamento 


Per i periodi lavorati e a parità di mansioni, spetta il normale trattamento economico e normativo, riproporzionato in base alla prestazione eseguita, in particolare per quanto riguarda la retribuzione globale e le sue singole componenti, nonché ferie, trattamenti per malattia e infortunio, congedo di maternità e parentale. 
Nei periodi in cui non viene richiesta la prestazione il lavoratore non matura alcun trattamento, salvo che abbia garantito al datore la disponibilità a rispondere alle chiamate.

L’indennità compensa l’obbligo di risposta

Il contratto intermittente può prevedere l’obbligo del lavoratore di rispondere alla “chiamata” del datore. 

A patto che sia voluto da entrambe le parti e che sia corrisposta un’indennità di disponibilità. Quest’ultima viene determinata dai contratti collettivi e, normalmente, è pari al 20% della retribuzione teorica. L’indennità è esclusa dal computo di ogni istituto legale o contrattuale, ed è assoggettata a contribuzione per il suo effettivo ammontare, in deroga al minimale contributivo. Sarà un decreto ministeriale (non ancora emanato) a stabilire la misura della retribuzione convenzionale in riferimento alla quale il lavoratore può versare la differenza contributiva per i periodi in cui ha percepito una retribuzione inferiore a quella convenzionale o ha fruito dell’indennità di disponibilità.


Obblighi del lavoratore 


Premesso che, percependo l’indennità di disponibilità, il lavoratore deve tenersi pronto a rispondere alla chiamata, l’articolo 16 del Dlgs 81/2015 prevede che, in caso di malattia o altro evento che gli renda temporaneamente impossibile la risposta, il lavoratore deve informare tempestivamente (e, quindi, prima di un’eventuale chiamata) il datore, specificando la durata dell’impedimento. Che, tuttavia, non sarà coperta dall’indennità di disponibilità. Il lavoratore che viola tale obbligo (salvo diversa previsione del contratto individuale) perde il diritto all’indennità per 15 giorni. Invece, il rifiuto ingiustificato può costituire motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto.


Comunicazione della chiamata 


Una volta che il rapporto è stato costituito, inviando il modello Unilav entro le ore 24 del giorno precedente, il legittimo svolgimento della prestazione richiede al datore di lavoro un ulteriore adempimento: prima dell’inizio dell’attività o di un ciclo integrato di prestazioni di durata fino a 30 giorni, egli deve comunicarne la durata all’Ispettorato nazionale del lavoro. 


Tale comunicazione, ossia quella che notifica l’attivazione del lavoratore, avviene (Dm 27 marzo 2013, circolare Inps 27/2013) con una delle seguenti modalità alternative: 

  • apposito servizio informatico (www.cliclavoro.gov.it);
  • via email, dopo aver scaricato il modello UNI-intermittente all’indirizzo Pec intermittenti@pec.lavoro.gov.it (non è necessario che l’indirizzo del mittente sia un indirizzo di Pec, poiché la casella di destinazione è abilitata a ricevere anche e-mail non certificate);
  • tramite l’apposita app (inserendo: codice fiscale del lavoratore, date di inizio e fine prestazione, codice di comunicazione obbligatoria);
  • via sms (al numero 339.994.2256) ma solo in caso di prestazione da rendersi entro le 12 ore e solo per i datori registrati al Portale Cliclavoro: il messaggio deve contenere almeno il Cf del lavoratore.

In caso di malfunzionamento dei sistemi informatici, si può inviare la comunicazione via fax all’Ispettorato territoriale del lavoro. Il datore deve conservare copia del fax e della ricevuta di malfunzionamento come prova dell’adempimento.


Sanzioni 


L’omesso invio della comunicazione anticipata di chiamata (è sufficiente anche un minuto di anticipo rispetto all’inizio della prestazione lavorativa) comporta, a carico del datore di lavoro, una sanzione amministrativa che va da 400 a 2.400 euro per ogni lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione (e non si applica la procedura di diffida ex articolo 13 del Dlgs 124/2004).


Computo nell’organico 


Non è semplice il criterio per calcolare i lavoratori a chiamata: per l’applicazione di qualsiasi disciplina legale o contrattuale per cui rilevi il numero dei dipendenti, il lavoratore intermittente è computato nell’organico in proporzione all’orario effettivamente svolto in ogni semestre. Quindi, se si deve calcolare l’organico (per esempio, per stabilire la tutela in caso di licenziamento illegittimo), le prestazioni di tutti gli intermittenti nell’ultimo semestre vanno sommate e rapportate alle ore teoriche di un full time, arrotondando a unità le frazioni superiori a 0,5.


Quanto all’organico di riferimento per l’assunzione di lavoratori a termine (20% di quelli “stabili”, salvo deroga contrattuale), il ministero (circolare 18/2014), si è espresso per il computo dei soli lavoratori intermittenti a tempo indeterminato cui è erogata l’indennità di disponibilità, computati come già precisato.


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@ Beneggi e Associati | Commercialisti al servizio delle imprese | Meda | Milano

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