Ristorazione: per asporto e domicilio esclusa l’aliquota IVA della somministrazione

 

La somministrazione di alimenti e bevande è soggetta ad una aliquota IVA unica del 10%, da escludere (in base a norma e prassi) per l’asporto e la consegna a domicilio

 

A volte accade che alcune norme fiscali, nel momento in cui sono emanate dal Legislatore o interpretate dalla prassi, grazie alla loro coerenza con il sistema tributario, alla loro logica interna e specialmente allo scarso impatto che in quel momento hanno sugli operatori economici, non diventano oggetto di discussione o di contestazione.

 

Con il passare del tempo però le situazioni cambiano, muta il contesto economico o quello fiscale e può succedere che quelle stesse norme assumano una diversa gravosità per i soggetti interessati, che potranno anche trovarle sorprendentemente punitive.

 

Assistiamo ad un caso del genere in questo 2020 per il settore della ristorazione, più volte obbligato dai provvedimenti sanitari contenitivi a limitare l’operatività degli operatori al solo asporto e alla consegna a domicilio, attività prima marginali che sono improvvisamente diventate tutto quello su cui il comparto della ristorazione può contare per sopravvivere. Le norme interessate sono quelle previste dalla normativa IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) in tema di somministrazione e cessione di beni alimentari, differenziazione capace di dare un ulteriore colpo ad un settore già in piena crisi.

 

Il perno della questione si fonda sui primi articoli del DPR 633/1972 (il cosiddetto DPR IVA), i quali stabiliscono alcune questioni fondamentali:

in base all’articolo 2 comma 1 del DPR 633/1972 “costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere”;

in base all’articolo 3 comma 2 del DPR 633/1972 “costituiscono […] prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo […] le somministrazioni di alimenti e bevande”.

 

A chiarire meglio la questione interviene la prassi nel 2016 con la Risoluzione n.103/E dell’Agenzia delle Entrate, dove si precisa che “il contratto di somministrazione di alimenti e bevande, inquadrato nell’ambito delle fattispecie assimilate alle prestazioni di servizi […] è caratterizzato dalla commistione di prestazioni di dare e prestazioni di fare, elemento, quest’ultimo che, ad esempio, distingue le prestazioni in esame dalle vendite di beni da asporto, che sono considerate a tutti gli effetti cessioni di beni, in virtù di un prevalente obbligo di dare”.

 

E, a scanso di ogni possibile equivoco, sempre l’Agenzia delle Entrate, nel 2019, con una tempistica quasi premonitrice, emana il Principio di diritto n.9 che ha per oggetto la “Aliquota IVA applicabile alla cessione e alla somministrazione di alimenti e bevande”, dove si chiarisce in modo chiaro ed esplicito che, ai fini IVA, occorre effettuare una distinzione netta tra somministrazione e cessione di alimenti e bevande, a prescindere dal soggetto che l’effettua.

 

La somministrazione è considerato un servizio, in quanto unisce alla cessione di alimenti la possibilità di usufruire del servizio di consumo nel luogo in cui è avvenuta la cessione, ed è assoggettata all’aliquota IVA agevolata del 10%, uguale per tutto ciò che viene somministrato (ai sensi della Tabella A parte III allegata al DPR 633/1972).

 

Per contro, nel caso in cui il consumo in loco dei beni e delle bevande cedute non avviene, viene a mancare la componente che qualifica come un servizio la somministrazione (unione di prestazioni di dare e di prestazioni di fare), motivo per cui, di conseguenza, la cessione degli alimenti e delle bevande dovrà scontare l’aliquota applicabile allo specifico bene ceduto, differenziando le aliquote in base al prodotto.

 

Le conseguenze di questo impianto normativo, indiscutibile da un punto di vista concettuale, e indiscusso quando l’asporto e la consegna a domicilio erano attività accessorie, oggi diventano di particolare gravosità per gli operatori del comparto della ristorazione, in molte regioni e per molti mesi nel 2020 impossibilitati ad espletare il servizio di somministrazione e costretti a limitare la propria operatività alla sola cessione di alimenti e bevande.

 

I ristoratori, basandosi sulle prescrizioni della Tabella A in allegato al DPR 633/1972, sono costretti a qualificare il bene ceduto, rintracciare l’aliquota IVA specifica, e certificare i corrispettivi in modo separato in base alle diverse aliquote applicabili ai beni alimentari venduti (a titolo di esempio una insalata caprese, composta da pomodoro e mozzarella, sconta una alquota del 4%, una bistecca del 10% e una bibita gassata del 22%).

 

La questione diventa più complicata per le pietanze composte da più alimenti soggetti ad aliquote diverse: in questo caso sarà necessario definire quale elemento del piatto rappresenti quello principale ed applicare l’aliquota prevista per questo.

 

Non è difficile prendere come la normativa in questione rappresenti, in questo momento, un notevole aggravio di oneri fiscali e amministrativi per un settore già in difficoltà.

 

Si noterà anche che, ai fini del futuro contenzioso tributario, se in un contesto di somministrazione mista a cessione può risultare difficoltoso distinguere cosa è stato somministrato da cosa è stato ceduto, quando la somministrazione è vietata per provvedimento, la sola certificazione di tutti i corrispettivi con una sola aliquota (possibilmente quella della somministrazione, il 10%) può essere un elemento sufficiente a dimostrare che non sono state applicate le differenziate aliquote previste per la cessione.

 

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