Le cripto-attività, che fanno leva su tecnologie Dlt quale la blockchain, sono in continua evoluzione e vengono utilizzate in numerosi ambiti di quella che è ormai nota come finanza decentralizzata (DeFi), priva di intermediari.
La casistica, che oggi ruota principalmente intorno a criptovalute, token, non fungible token (Nft) e metaverso, è così varia che ogni fenomeno merita una trattazione giuridica e tributaria a sé. Unico tratto comune tra tali fenomeni è la sostanziale assenza di regolamentazione: circostanza che ovviamente non impedisce di tentare una loro analisi. Il diritto viene prima e va oltre le norme, anche in un potenziale mondo virtuale, ubi societas, ibi ius.
Novità di rilievo, sul fronte regolamentare, è il decreto del Mef 13 gennaio 2022, che istituisce il registro degli operatori in criptovalute con specifici obblighi di registrazione e presenza in Italia per i soggetti esteri e di comunicazione alle autorità italiane. Obblighi che, da un lato, aumenteranno i costi per gli operatori e, dall’altro, renderanno verosimilmente più agevoli e frequenti i controlli, anche sui temi di residenza degli operatori stessi.
La finanza decentralizza, esattamente come avvenuto nella finanza tradizionale, rappresenta l’evoluzione delle criptovalute, dalle quali tutto origina. I momenti essenziali della vita delle criptovalute sono la creazione, il “deposito” e lo scambio (con altre valute virtuali, con beni, servizi, Nft oppure con valute aventi corso legale). A ognuno di questi momenti possono essere ricollegate fattispecie che hanno rilevanza tributaria.
In Italia, ancora oggi, e nonostante la loro evidente a-territorialità, esse sono ritenute dall’agenzia delle Entrate assimilabili alle valute estere, circostanza che comporta rilevanti conseguenze fiscali sul trattamento sia ai fini Iva che ai fini delle imposte sui redditi per persone fisiche e giuridiche.
Il primo momento da esaminare è il processo di “mining” (o altre modalità, tipo il “forging”), ovvero la creazione della criptovaluta. Poiché l’Italia non ha una normativa che disciplini l’eventuale tassazione della fase di creazione, riteniamo arduo sostenere che il momento della creazione stessa possa costituire un evento tassabile e ad oggi sembra corretto sostenere che il momento impositivo vada spostato in avanti, all’atto dello scambio.
Dal punto di vista delle imposte dirette, per i soggetti che gestiscono gli scambi, l’equiparazione alle valute tradizionali comporta la tassazione del reddito derivante dall’attività di intermediazione nell’acquisto e vendita di criptovalute, al netto dei relativi costi inerenti all’attività medesima (tassazione ordinaria d’impresa che sconteranno anche le realtà imprenditoriali che erogano altri servizi che ruotano attorno alle valute virtuali). Per il soggetto persona fisica che invece fa trading su criptovalute, le regole impositive – stando sempre all’agenzia delle Entrate – saranno quelle dei redditi diversi.
Per le persone fisiche (non imprenditori) la dibattuta equiparazione delle criptovalute alle valute tradizionali implica che l’agenzia delle Entrate applichi le regole previste dall’articolo 67 del Tuir. Quindi le cessioni a pronti di criptovalute non dovrebbero generare redditi imponibili, salvo nel caso in cui la valuta ceduta derivi da prelievi da portafogli elettronici (wallet) per i quali la giacenza media superi un controvalore di 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continuativi nel periodo d’imposta. E ciò in quanto, al superamento di tale soglia, assumerebbe quella finalità speculativa che contrasterebbe con la ratio dell’esclusione. Per cessione, inoltre, si intenderebbe non solo la conversione di criptovalute con euro, ma anche con un’altra valuta virtuale.