Criptoattività: plusvalenze tassate solo oltre i 2.000 euro. Cambia l’interpretazione

Novità importanti nella disciplina fiscale delle criptoattività: con le istruzioni al modello Redditi 2025, l’Agenzia delle Entrate chiarisce che il limite dei 2.000 euro non rappresenta una soglia oltre la quale tassare l’intero importo, ma una franchigia da sottrarre alla base imponibile. Un cambiamento di rotta significativo, che incide direttamente sul calcolo dell’imposta dovuta dalle persone fisiche che hanno realizzato guadagni su bitcoin, ether e altre criptovalute nel corso del 2024.

Facciamo un esempio concreto. Se un contribuente ha realizzato nel 2024 plusvalenze da criptoattività per un ammontare di 10.000 euro, dovrà applicare l’imposta sostitutiva del 26% non sull’intero importo, come si riteneva in precedenza, ma solo su 8.000 euro, ovvero sulla parte eccedente la franchigia. Questo principio allinea la prassi amministrativa a quanto già lasciato intendere dalla circolare 30/E del 2023, dove si parlava espressamente di «tassazione per la parte che eccede i 2.000 euro».

Le istruzioni al modello Redditi 2025, però, vanno oltre. Per la prima volta sarà possibile dichiarare le plusvalenze derivanti da criptoattività anche nel modello 730, sezione V, offrendo ai contribuenti una modalità più diretta e snella per adempiere ai propri obblighi fiscali. Una novità operativa che va incontro all’esigenza di semplificazione, soprattutto per chi gestisce le proprie posizioni cripto in modo non professionale.

Il problema interpretativo resta però aperto per gli anni precedenti. La normativa di riferimento, contenuta nell’articolo 67, comma 1, lettera c-sexies del Tuir, nella versione valida per i periodi d’imposta 2023 e 2024, utilizza l’espressione “non inferiori complessivamente a 2.000 euro”, facendo pensare a una soglia, non a una franchigia. Eppure, la prassi amministrativa aggiornata sembra suggerire il contrario. Un’incongruenza che rischia di generare contenzioso, considerando che la legge di Bilancio 2025 ha soppresso del tutto il limite dei 2.000 euro a partire dal 1° gennaio 2025, senza chiarire retroattivamente il significato da attribuire al limite per il biennio precedente.

Serve quindi una posizione ufficiale e definitiva da parte dell’amministrazione finanziaria. Le conseguenze non sono marginali: qualificare i 2.000 euro come soglia significa tassare l’intero importo oltre quel limite; considerarli una franchigia implica tassare solo l’eccedenza. Per un contribuente con 2.500 euro di plusvalenze, la differenza è tra pagare imposte su 2.500 euro o su soli 500.

La questione si colloca in un contesto normativo ancora in evoluzione, dove le criptoattività faticano a trovare una disciplina organica. Le ultime disposizioni le inquadrano come strumenti finanziari soggetti a imposta sostitutiva, ma le difficoltà di applicazione pratica restano, soprattutto in assenza di un sistema strutturato per la tracciabilità e la certificazione dei guadagni.

Dal punto di vista operativo, chi ha generato plusvalenze da criptoattività nel 2024 dovrà indicarle nel quadro RT del modello Redditi o nella nuova sezione V del 730, allegando la documentazione utile a dimostrare la natura, l’importo e la data delle operazioni effettuate. La determinazione della plusvalenza va fatta sulla base della differenza tra il corrispettivo della cessione e il costo di acquisto delle criptoattività, con l’obbligo di conservare le evidenze documentali per eventuali controlli futuri.

Per lo studio professionale che segue privati con investimenti in criptovalute, diventa strategico:

  • spiegare correttamente la novità della franchigia

  • verificare se vi siano situazioni passate da rettificare

  • gestire l’inserimento nei modelli Redditi o 730

  • accompagnare il cliente nella raccolta della documentazione utile

In sintesi, cambia il trattamento fiscale delle plusvalenze da criptoattività per l’anno 2024: non più tassazione dell’intero importo, ma solo della parte eccedente i 2.000 euro. Un’interpretazione più favorevole per il contribuente, che allinea la prassi italiana a quella di altri Paesi europei e che, in assenza di una norma esplicita, rappresenta comunque un segnale importante verso una maggiore chiarezza nella fiscalità digitale.

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