Per i soci che rivestono anche la carica di amministratori, la scelta tra percepire un compenso o ottenere utili sotto forma di dividendi rappresenta una delle decisioni più delicate in ambito fiscale, contributivo e strategico. In apparenza, si tratta di due modalità alternative per remunerare un’attività. In realtà, ogni opzione attiva implicazioni differenti, che impattano sul carico fiscale personale e aziendale, sulla contribuzione previdenziale e sugli equilibri di bilancio.
Comprendere i meccanismi normativi e le conseguenze economiche delle due strade è essenziale per operare una scelta che non si limiti al risparmio immediato, ma si proietti con coerenza sulla gestione aziendale nel medio-lungo periodo.
Fiscalità personale e aziendale: due prospettive da conciliare
Da un lato, il socio-amministratore è interessato al netto percepito. Dall’altro, la società deve considerare l’incidenza del compenso o del dividendo sul proprio reddito imponibile e sul bilancio. Non sempre ciò che appare conveniente per l’uno lo è anche per l’altro.
Con un compenso, la società beneficia della deducibilità ai fini Ires dell’emolumento e dei relativi contributi previdenziali (quota a carico azienda). Tuttavia, il compenso è soggetto a Irpef progressiva, addizionali locali e contributi Inps (Gestione Separata e, in alcuni casi, Gestione IVS).
Con la distribuzione di dividendi, invece:
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l’importo è tassato al 26% con imposta sostitutiva in capo al socio;
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la società non deduce nulla, quindi sconta pienamente Ires e Irap;
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resta comunque dovuta la contribuzione IVS, se il socio svolge attività operativa abituale.
In sostanza, anche in assenza di compenso, un socio attivo deve versare i contributi commercianti. Questo è un punto spesso trascurato.
Doppia contribuzione Inps: quando scatta
Il socio-amministratore che svolge attività operativa prevalente nella società è tenuto a iscriversi sia:
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alla Gestione Separata, per il compenso da amministratore;
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alla Gestione IVS commercianti/artigiani, per l’attività imprenditoriale.
Il risultato è un carico previdenziale elevato, che può assorbire una parte significativa del reddito. Tuttavia, i contributi versati alimentano la posizione pensionistica del socio, e non possono essere considerati alla stregua di imposte.
Due scenari concreti a confronto
Supponiamo una società con un utile lordo di 500.000 euro. Due le strade:
1. Erogare un compenso di 200.000 euro
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Deduzione Ires su compenso e contributi (quota azienda);
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Base imponibile Ires ridotta a circa 271.834 euro;
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Il socio paga Irpef, addizionali e contributi Inps (Gestione Separata e IVS);
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Netto percepito ridotto dal peso contributivo, ma pienamente coperto a fini previdenziali.
2. Distribuire 200.000 euro di utili come dividendi
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Nessuna deduzione per la società: base Ires interamente su 500.000 euro;
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Il socio paga imposta sostitutiva del 26% sui dividendi e contribuzione IVS;
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Contributi inferiori, ma senza effetto previdenziale su parte del reddito;
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Miglioramento degli indici di redditività e bancabilità per la società.
Dal confronto numerico, le due opzioni risultano sostanzialmente equivalenti sul piano del carico complessivo, con differenze che vanno analizzate caso per caso. La scelta non può essere automatica né guidata solo dal risparmio fiscale.
Il rischio fiscale del compenso sproporzionato
L’articolo 95 del Tuir consente la deduzione integrale dei compensi agli amministratori, purché:
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siano deliberati in modo formale;
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siano effettivamente erogati;
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risultino inerenti e congrui rispetto all’attività svolta.
Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate può disconoscere la deducibilità se il compenso appare eccessivo rispetto a:
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il volume dei ricavi;
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la dimensione dell’impresa;
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l’andamento economico dell’azienda.
Secondo la giurisprudenza, il Fisco non può tassare due volte l’importo disconosciuto, ma può negarne la deduzione. In sostanza, il socio paga le imposte normalmente, ma la società perde il beneficio fiscale sulla quota eccedente ritenuta non congrua.
Impatto sul bilancio e rating aziendale
Una scelta oculata tra compensi e dividendi influisce anche sui ratio di bilancio:
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I dividendi non riducono il conto economico: migliorano ROE, ROI, EBITDA, leverage;
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I compensi riducono l’utile: peggiorano i margini ma alleggeriscono il carico fiscale.
Per aziende in fase di negoziazione con istituti di credito o coinvolte in gare pubbliche, la scelta della remunerazione più “leggera” sul bilancio può fare la differenza in termini di accesso al credito o accettazione nelle vendor list.
Quando conviene l’una o l’altra scelta
Dividendi preferibili se:
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il socio non partecipa all’attività operativa (no IVS);
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la società è una Spa (non soggetta a IVS);
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l’amministratore è pensionato;
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si vuole migliorare il bilancio in ottica bancaria;
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il socio ha altri redditi elevati e vuole evitare lo scaglione Irpef più alto.
Compensi preferibili se:
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il socio ha necessità di maturare contributi per la pensione;
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l’importo resta entro i massimali contributivi;
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la società ha utili rilevanti da “scaricare” per ridurre l’Ires;
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non ci sono altre fonti di reddito del socio.
In molti casi, la soluzione più efficiente è combinare entrambe le modalità, bilanciando il carico fiscale, previdenziale e gli effetti di bilancio.
Il ruolo della consulenza: nessuna scorciatoia
La tentazione di affidarsi a schemi rigidi o calcoli automatici è comprensibile, ma pericolosa. Ogni impresa è diversa: la strategia fiscale e contributiva deve riflettere la struttura patrimoniale, l’andamento economico, la posizione del socio, le prospettive pensionistiche.
Beneggi e Associati, con oltre trent’anni di esperienza e una visione integrata tra consulenza societaria, fiscale e strategica, guida imprenditori e amministratori nella costruzione della scelta migliore, valutando non solo il risparmio immediato, ma la coerenza con gli obiettivi di lungo periodo, la compliance normativa e la sostenibilità dei margini aziendali.