TFR in busta paga: una pratica illegittima che espone lavoratori e imprese a gravi rischi

Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) rappresenta un diritto fondamentale del lavoratore dipendente. La sua funzione è quella di garantire una riserva economica post-lavorativa, accumulata progressivamente durante il rapporto di lavoro, per essere disponibile alla cessazione dello stesso. Tuttavia, sta emergendo una prassi impropria: l’erogazione del TFR in busta paga mensile. Una soluzione apparentemente vantaggiosa, ma giuridicamente inammissibile e potenzialmente dannosa per entrambe le parti del rapporto di lavoro.

Cosa dice la legge: il TFR è retribuzione differita

L’articolo 2120 del Codice Civile stabilisce che il TFR va accantonato annualmente, rivalutato, e corrisposto solo alla cessazione del rapporto. Qualsiasi deroga, come l’erogazione mensile, è lecita solo nei casi tassativamente previsti: spese sanitarie straordinarie, acquisto o ristrutturazione della prima casa, e altri casi stabiliti dai contratti collettivi.

La Nota n. 616/2025 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha ribadito con chiarezza: versare mensilmente il TFR, anche con il consenso del lavoratore, è una violazione del principio di retribuzione differita. Questo comportamento snatura la funzione del TFR, compromettendo le tutele economiche previste dalla normativa.

Esempio pratico 1: l’offerta “netto più alto”

Un’azienda del settore servizi propone ai propri addetti di aumentare lo stipendio netto includendo una quota mensile di TFR. Il lavoratore, attirato dalla liquidità immediata, accetta. Alla cessazione del rapporto, scopre di non aver più nulla accantonato e, soprattutto, che ha pagato più tasse e maturato meno contributi. Il “vantaggio” si è trasformato in perdita.

Le implicazioni fiscali e previdenziali

Accettare il TFR in busta paga equivale a rinunciare al regime di tassazione separata previsto dall’articolo 17 del TUIR. Questo comporta:

  • Più IRPEF: il TFR diventa parte del reddito ordinario, tassato con aliquote progressive, invece che con l’aliquota media applicata alla tassazione separata.

  • Più contributi, ma solo se versati: se il datore di lavoro non versa i contributi aggiuntivi sul TFR mensile, il lavoratore accumula meno pensione. In assenza di controllo, questo rischio è concreto.

Esempio pratico 2: lavoratore stagionale senza accantonamento

Una società turistica, per semplificare la gestione del personale stagionale, versa il TFR in busta paga mensile. Al termine della stagione, i lavoratori non hanno nulla da riscuotere. Alcuni scoprono che il datore non ha versato contributi sulla quota di TFR. L’Ispettorato interviene, con sanzioni e obbligo di ricostituzione del fondo.

I rischi per il datore di lavoro

Dal punto di vista aziendale, questa prassi può sembrare vantaggiosa per ragioni di cash flow o attrattività nei confronti del personale. In realtà:

  • Espone a rilievi ispettivi e sanzioni per violazione dell’art. 2120 c.c.;

  • Può generare squilibri finanziari, se al momento della cessazione mancano le risorse per saldare il TFR residuo;

  • Indebolisce la reputazione aziendale e complica i rapporti con sindacati, enti previdenziali, istituti di credito.

Soluzioni corrette e percorsi di compliance

L’unica modalità lecita per l’erogazione anticipata del TFR è quella prevista dalla legge: un’anticipazione una tantum, subordinata a requisiti stringenti (anzianità di almeno otto anni, motivazioni documentabili, disponibilità del fondo). Qualsiasi altra formula deve essere considerata illegittima.

Beneggi e Associati supporta le imprese nella gestione del TFR in conformità normativa, attraverso strumenti di pianificazione finanziaria, audit retributivo e adeguamento contrattuale. Per i lavoratori, offre consulenza per il recupero dei diritti lesi e la tutela previdenziale.

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